Impossessamento di reperti archeologici. E’ reato, se provenienti da scavi clandestini
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Impossessamento di reperti archeologici. E’ reato, se provenienti da scavi clandestini


Di recente la Cassazione ha pronunciato una severa decisione in tema di illecito impossessamento di beni culturali. Secondo la Corte Suprema, infatti, vi è una significativa differenza fra l’ipotesi di un rinvenimento casuale di questi beni e la circostanza in cui il responsabile dell’illecito abbia acquisito il possesso degli stessi grazie a scavi clandestini. In questa seconda ipotesi si assiste ad un “vero e proprio saccheggio di un patrimonio della collettività” e quindi, quale che sia il valore economico dei beni rinvenuti, non si potrà mai parlare di particolare tenuità del fatto.

In sede di merito, due imputati erano stati condannati per il concorso nel reato di cui all’art. 176, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, loro contestato per essersi impossessati di beni culturali appartenenti allo Stato, in quanto da ritenersi reperti di interesse storico e archeologico, costituiti da cinque monete, di cui una in argento risalente al II secolo a.C. e un frammento di moneta in bronzo ossidato, nonché da una serie di oggetti (un orecchino in bronzo, un bracciale, una spilla, un peso da telaio in terracotta, due olle, uno stamnos, due cantaros integri, uno skphios, una bocchetta tribolata, una bocchetta integra, una olla rotta) tutti del IV secolo a.C.

Avverso tale condanna era stato proposto ricorso per cassazione in quanto ai fini della sussistenza del reato sarebbe sempre necessaria la dichiarazione di interesse culturale

Inoltre, si lamentava, in relazione all’art. 131-bis c.p. (speciale tenuità del fatto) il mancato riconoscimento della causa di non punibilità in questione, nonostante l’esiguo valore dei reperti, stimato in soli 50 euro.

Ebbene, ai sensi dell’art. 176, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, chiunque si impossessa di beni culturali indicati nell’art. 10 appartenenti allo Stato è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da  31,00 a 516,50 euro.

La Cassazione ha ritenuto infondati i ricorsi in base all’assunto per cui per “beni culturali” si intendono le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico; sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta apposita dichiarazione, le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli appena indicati.

Si consideri anche che il quadro normativo prevede che i beni culturali, da chiunque e in qualunque modo ritrovati nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato e, a seconda che siano immobili o mobili, fanno parte del demanio o del patrimonio indisponibile, ai sensi degli artt. 822 e 826 c.c., e, infine, l’art. 826 del codice civile prevede che fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le cose di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo.

Alla luce di tale articolato normativo, la ricostruzione difensiva secondo cui ai fini della sussistenza del reato di cui all’ art. 176, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004 sarebbe sempre necessaria la dichiarazione di interesse culturale prevista dal comma 3, lett. a) dell’art. 10 non è corretta. Infatti, la citata disposizione di cui all’art. 10, comma 3, contiene una previsione residuale, che trova applicazione per quelle cose di interesse archeologico non ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini e che, quindi, non appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato. In sostanza, come si legge nella decisione in commento, dal complesso di disposizioni sopra menzionate deriva che esistono due categorie di cose di interesse archeologico (quali, come nella specie, monete, monili, vasellame) che devono essere considerate “beni culturali”, il cui impossessamento è sanzionato penalmente dall’art. 176 d.lgs. n. 42 del 2004: 1) le cose ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, perché, in tal caso, esse appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato; 2) le cose per le quali sia intervenuta la dichiarazione di cui all’art. 13 d.lgs. n. 42 del 2004.

Nel caso di specie, la Corte si è attenuta ai principi ora indicati, avendo correttamente escluso la necessità della dichiarazione di cui all’art. 13 d.lgs. n. 42 del 2004, come opinato dal ricorrente, in quanto i beni in questione, in quanto rinvenuti nel sottosuolo, appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato e, conseguentemente, essendo stati rinvenuti nella disponibilità dei ricorrenti, a costoro è stata correttamene ascritta la fattispecie di cui all’art. 176, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.

Quanto al mancato riconoscimento della speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis c.p. (speciale tenuità del fatto), la Cassazione ritiene tale decisione non censurabile.

Come è noto, la disposizione di cui al citato art. 131-bis opera, ai sensi del comma 1, solo con riferimento ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta e sempre che ricorra una duplice condizione, essendo congiuntamente richieste la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento. Il primo dei due requisiti richiede, a sua volta, la specifica valutazione della modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p., cui segue, in caso di vaglio positivo – e dunque nella sola ipotesi in cui si sia ritenuta la speciale tenuità dell’offesa -, la verifica della non abitualità del comportamento, che il legislatore esclude nel caso in cui l’autore del reato sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

Con riferimento, in particolare, alla speciale tenuità dell’offesa, come affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione, il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa che prenda in esame tutte le peculiarità della fattispecie concreta riferite alla condotta in termini di possibile disvalore e non solo di quelle che attengono all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto.

Nel caso in esame, la Corte territoriale ha escluso la sussistenza dei presupposti applicativi della speciale causa di non punibilità in esame, individuando, quale elemento impeditivo presente nella fattispecie concreta, il fatto che i reperti in esame, pur di modesto valore economico, provengano da scavi clandestini, e quindi da un vero e proprio saccheggio di un patrimonio della collettività. Tale circostanza, secondo la Cassazione, è sufficiente ad escludere la sussistenza della tenuità dell’offesa e quindi rende condivisibile la decisione di merito impugnata.

Attilio Pinna