29 Mag Recarsi in Comune per richiedere aiuti economici. Violenza a un pubblico ufficiale?
La VI Sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza del 28 aprile 2020, n. 13153, ha stabilito che non integra il delitto di cui all’art. 336 cod. pen. (violenza o minaccia a un pubblico ufficiale) la reazione genericamente minatoria del privato, mera espressione di sentimenti ostili non accompagnati dalla specifica prospettazione di un danno ingiusto, che sia sufficientemente concreta da risultare idonea a turbare il pubblico ufficiale nell’assolvimento dei suoi compiti istituzionali.
Nel caso esaminato, veniva annullata la sentenza di condanna dell’imputato per la sua assidua e petulante presenza presso gli uffici comunali e per la sua continua ed insistente richiesta di elargizioni economiche da parte del sindaco in ragione dello stato di indigenza.
Il giudice di legittimità ha accolto la tesi difensiva secondo cui la violenza o minaccia poste in essere dal privato non avrebbero in alcun modo inciso sulla volontà del Sindaco, che non gli ha mai consegnato somme di denaro non dovute in violazione di leggi o regolamenti. Infatti, per i fatti contestati nel 2014 l’erogazione era già avvenuta e per quelli commessi nel 2015 era previsto un piano mensile per l’erogazione del sostegno economico. Sotto diverso profilo, la Corte d’Appello non avrebbe tenuto nella giusta considerazione la natura dei comportamenti tenuti nei confronti del pubblico ufficiale, trattandosi di semplici alterchi, con riguardo ai quali i giudici hanno erroneamente e contraddittoriamente valutato le prove testimoniali.
I Giudici di appello, ribaltando la sentenza assolutoria in primo grado, e condannando l’imputato, ricostruivano la vicenda evidenziando come questi, il quale viveva in stato di indigenza: a) aveva ottenuto dal Comune aiuti economici, che tuttavia non aveva ritenuto sufficienti; b) aveva assunto nel tempo atteggiamenti sempre più invadenti; c) grazie alle condotte intimidatorie, minacciose ed ingiuriose aveva conseguito aiuti economici in misura superiore al dovuto (nel 2014 Euro 1500,00 a fronte del tetto massimo fissato in Euro 400,00) oltre a borse lavoro, cantieri lavoro, assegni civici e al pagamento di bollette di varie utenze; d) aveva tenuto comportamenti minacciosi nei confronti del Sindaco e di altri pubblici ufficiali sia dentro che fuori gli uffici comunali, tanto che il 27 febbraio 2015 il privato aveva fermato il Sindaco per strada, minacciandolo quando costui gli aveva fatto presente che aveva già ricevuto più di quanto gli spettava; e) aveva posto in essere condotte minacciose anche nei confronti di altri soggetti, quando, ad esempio, il 27 maggio 2015 era stato allontanato dai Carabinieri, ma si era poco dopo ripresentato assegnando a una funzionaria il termine di sette minuti per contattare il Sindaco e fargli avere il denaro richiesto. La Corte ha rappresentato altresì che in relazione alle insistenti minacce, l’imputato aveva chiesto e ottenuto il rilascio del porto d’armi e, comunque, la serenità del Sindaco era stata oltremodo turbata.
La Corte territoriale, nel riformare la decisione assolutoria di primo grado, secondo cui la condotta tenuta dall’agente appariva “espressione di volgarità ingiuriosa e di atteggiamento parolaio genericamente minaccioso” non finalizzata ad incidere sull’attività conclusasi con l’erogazione di somme uguali per coloro i quali erano nelle stesse condizioni disagiate, ha concluso, anche alla stregua degli elementi fattuali raccolti nel corso dell’integrazione istruttoria, nel senso della colpevolezza.
La Corte di Cassazione, invece, ha precisato che l’ assunto dei giudici di appello – nell’attribuire valenza minatoria alla petulante e insistente presenza con prospettazione di non andarsene, alla generica rappresentazione di autoinvitarsi a pranzo a casa del Sindaco e agli inviti perentori rivolti ad altri funzionari per poter avere un colloquio con costui – non fosse coerente con i criteri interpretativi fissati nella giurisprudenza di legittimità in materia.
In realtà, perché sia ravvisabile una minaccia idonea a rendere configurabile il reato contestato, occorrerebbe che la condotta posta in essere dall’agente sia dotata di effettiva potenzialità a coartare la volontà del pubblico ufficiale nell’assolvimento dei doveri d’ufficio, tale non potendo dirsi un atteggiamento del privato che genericamente esprima sentimenti ostili non accompagnati da specifiche prospettazioni di un danno ingiusto di una qualche concretezza idonee a turbare il pubblico ufficiale nell’assolvimento dei compiti istituzionali, non essendo neppure univocamente dimostrata l’esistenza dell’atto contrario ai doveri di ufficio.
Nel caso concreto, l’unica espressione dotata di effettiva valenza minatoria era quella rivolta dal privato al Sindaco il 27 febbraio 2015, mentre gli diceva “come tu ti diverti con me, io mi potrei divertire con te”: espressione rimasta però isolata e – come tale – configurabile come minaccia, non perseguibile per mancanza di querela.
Per contro, la continua ed insistente presenza per richiedere elargizioni legate allo stato di indigenza pare piuttosto risolversi in una generica condotta invasiva e petulante, nella quale potrebbe configurarsi il meno grave reato di molestie, per il quale è sufficiente un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà, con la conseguenza che la pluralità di azioni di disturbo integra l’elemento materiale costitutivo del reato.
Il giudice di legittimità, in definitiva, alla luce di queste argomentazioni, annullava la sentenza impugnata e rinviava per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello.
Attilio Pinna